L’AMORE MALATO. Intervista a Walter Comello, psicoterapeuta, criminologo clinico e psicopatologo forense, curatore del convegno organizzato da Rotary Club Torino Next
L’amore malato è un buon titolo per un convegno che parla di violenza sulle donne, perché c’era un tempo in cui l’amore era amore e poi è diventato altro. Ne parliamo con Walter Comello, presidente di Rotary Club Torino Next, organizzatore del convegno, psicologo, psicoterapeuta, criminologo clinico e psicopatologo forense che nella sua attività si occupa di autori e vittime di reato.
Da dove nasce l’idea di questo convegno?
Credo che un’organizzazione come Rotary, che si occupa di aspetti diversi del sociale a livello locale e internazionale, fino ad ora abbia portato poca attenzione a questo argomento importantissimo della nostra vita. Io che in questo momento sono presidente del mio Club e vivo quotidianamente per la mia professione i drammi delle vittime e le incapacità devastanti dei responsabili, ritengo di dover porre l’attenzione su questo argomento, tentando di farlo in un modo diverso, mi auguro contributivo a una necessaria nuova cultura. Per questo al convegno sono invitate figure diverse, dalle Istituzioni alle Associazioni che più sono in prima linea nella difesa delle donne, come Telefono Rosa ed EMMA onlus, che si occupa anche di un importante progetto per bambini e ragazzi orfani di casi di femminicidio. Ci saranno poi professionisti che lavorano sul campo e il fine dell’incontro, aperto al pubblico, sarà di parlare di questo argomento dando voce a chi se ne occupa.
Cosa intende per nuova cultura?
Del problema si parla da molto tempo, senza ottenere risultati. Purtroppo i numeri delle denunce per stalking aumentano, il numero delle donne sottoposte a violenza fisica e/o psicologica aumenta e il numero dei femminicidi non cambia. Malgrado l’impegno di Organizzazioni e di molti, la situazione non è mutata. Einstein diceva che è necessario un nuovo modo di pensare per porre rimedio ai problemi creati da un precedente modo di pensare. Se non c’è una diagnosi corretta non si può fare una terapia corretta. Per prima cosa il problema della violenza sulle donne non va inteso come un problema con una soluzione, ma un problema che ha molte forme espressive e ognuna delle quali necessita di una specifica soluzione. Non si può pensare che sia solo un problema culturale, perché in molti casi la violenza che scaturisce nel femminicidio non deriva da cultura, ma da patologia causata dall’incapacità di alcuni soggetti ad accettare l’abbandono. Una donna ha diritto a farsi la sua vita, ma il diritto in alcuni casi deve tener conto delle reali circostanze. Due terzi della popolazione italiana regolarmente sposata è separata, nella stragrande maggioranza dei casi il diritto di una donna a rifarsi una vita corrisponde al diritto di un uomo a fare la stessa cosa, in alcune situazioni però esiste un’incapacità che va riconosciuta e necessariamente gestita. Da convegni come questo e dalla comunicazione che ne deriva deve emergere una cultura nuova, quella della prevenzione. C’è un tempo in cui il disagio o la patologia, come la di vuol chiamare, è necessario che sia riconosciuta in quanto tale e affrontata con le professionalità che lo sanno fare. Non si può pensare di sanzionare una patologia per risolverla, i malati si curano, i rei si sanzionano. In questo caso è opportuno occuparsi del disagio prima che questo diventi motivo di sanzione e questo è l’aiuto migliore da dare, prima che a quegli uomini, a quelle donne in difficoltà perché queste possano fare la loro vita senza diventare vittime.
Cosa pensa si debba fare?
Prima di tutto differenziare le situazioni per fare diagnosi diverse e di conseguenza terapie o prendere provvedimenti diversi. I luoghi comuni non servono e certi linguaggi diventano controproducenti. Una comunicazione non adeguatamente consapevole arriva solo alle vittime, le orienta non sempre alla soluzione migliore e non tocca minimamente chi non è in grado di ascoltare. Non si devono creare fronti, ma consapevolezze nuove. Il dolore affettivo è devastante, invalidante, non differenzia cultura o condizioni socioeconomiche, necessita di aiuto. Chi ha una cultura violenta, non dà nessuna importanza a tutte questa attenzione all’argomento, reputa legittime le sue azione, la sanzione non è per lui inibente e necessita, come viene definita negli Stati Uniti, di una moral therapy. Peraltro, alcune volte, l’eccessivo focus sull’argomento trascina in giudizio persone oggetto di speculazioni perché la legge ha i suoi, chiamiamoli così, vizi di forma.
Cosa deve fare una donna che si trova in difficoltà?
Mi auguro sempre più che possa usufruire di informazioni adeguate da renderla capace di distinguere, in casi diversi, cosa fare e chi può essere l’interlocutore che la può aiutare. Molto importante è il lavoro delle Associazioni Anti-Violenza, ma la denuncia non deve essere l’unica strada per affrontare il problema. Tutti vogliamo vivere in modo migliore in un mondo migliore, il giudizio è un istinto, ma produce conflitti; capire, non condividere, aiuta a ridurre di molto quei conflitti.