“Tra i rami incerti andava una fanciulla, ed era la vita”, questa frase tratta da Prigioniera di Federico García Lorca, incarna per me in toto la vera essenza dell’esistenza e la trovo calzante per il racconto che mi accingo a scrivervi. La storia narra il percorso di un giovane di talento, che chiamerò qui Ulisse, e il suo tortuoso viaggio adolescenziale. Nato in un giorno di gennaio quando l’inverno aveva deciso di affrescare il panorama con una nevicata degna di passare alla storia, aveva trascorso l’infanzia in maniera serena e felice. Eccellente alunno, all’età di 14 anni si trovò ad affrontare la perdita del nonno a cui era legatissimo. Ricordo, quando glielo comunicai, come il suo pianto silente aveva di colpo inondato il pavimento di lacrime e disperazione. Chiusosi sempre più in se stesso, nonostante i numerosi amici, affrontò poco dopo le prime crisi di disperazione. Da genitori affrontammo subito il problema consapevoli che si combattesse contro un nemico subdolo, crudele ed invisibile, confidando nella esperienza dei migliori medici presenti nel nostro territorio. Cedere, per pura ignoranza, alle lusinghe terapeutiche degli psicofarmaci fu il primo passo falso di due impauriti genitori e il non vedere da lì a poco miglioramenti alcuni ci portò al primo ricovero, sebbene in day hospital, in un rinomato (almeno a parole) centro pediatrico. Da buon padre bloccai le mie attività e partii con lui. Primi test incomprensibili, primi esami per tutta la famiglia e primi clamorosi abbagli di una medicina che si presenta come un principe azzurro, ma che demolisce con diabolica scienza chi a lei si affida. Strano a dirsi ma il luminare che diede a nostro figlio il farmaco “miracoloso“, - stia tranquillo lo prendono milioni di adolescenti americani (sigh!) -, non lo visitò mai. Il protocollo prevedeva che lo analizzassero i suoi sottoposti mentre a parlare con il professore fossi io con il vero ruolo di autorizzare e vergare l’uso del farmaco a mio figlio. Ricordo di quei giorni l’affetto che provavo verso tutti quei ragazzi sfortunati che incontravo, quasi fossero tutti figli miei soprattutto quelli abbandonati dai padri perché non ritenuti alla loro altezza. Ma questa è un’altra storia. Ovviamente non trovammo soluzione al problema, anzi sempre una confusione maggiore offuscava i nostri pensieri sulla effettiva sofferenza di nostro figlio. Passammo così da medico a medico, con un doppio controllo esercitato anche su di noi genitori considerati veri “untori“ dei problemi dei piccoli. Passarono tre anni di visite, controlli e crisi sempre più difficili da affrontare senza però che in noi genitori e nella testa di nostro figlio si cedesse alla malattia. Ci si avvicina così alla maggiore età e, dato il fallimento assoluto di ogni terapia e di qualsiasi farmaco, ci consigliarono una luminare, primario di ospedale e docente universitaria. Ultima speranza ci affidammo a lei anche nella necessità di dover lasciare le terapie pediatriche per quelle da adulto. Ennesimo fallimento, anche se devo riconoscere a questo medico “strizzacervelli” il tentativo di ridurre piuttosto che aumentare i medicinali. Parimenti fallimentare proseguiva il percorso parallelo con gli psicologi di maggiore grido: patologie inesistenti e solita litania: “una pillolina tutta la vita“. Per fortuna la caparbietà e l’intelligenza di nostro figlio gli permettevano di continuare un felice percorso scolastico foriero di speranza verso un domani migliore. Ma torniamo alle nuove cure dei luminari talmente sbagliate che lo portarono a tre trattamenti sanitari obbligatori nel giro di un mese non appena compiuta la maggiore età. Io avevo tredici anni quando andai a vedere “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e successivamente rimasi molto colpito dalla tragica esistenza di Camille Claudel (giovane artista e musa di Auguste Rodin) e della crudeltà con la quale fu rinchiusa negandole l’amore, la felicità e la vita. Bene posso assicurarvi che da allora poco è cambiato, che i pazienti con queste patologie, vere o presunte, non sono trattati come esseri umani, vivono immersi in un baratro che sa di violenza, minacce e crudeltà e dove il suicidio può sembrare l’unica forma di ali per volare via da questa crudele situazione. Mi assumo integralmente il peso di quando sto asserendo forte che le mie parole siano già state ascoltate da chi di dovere. Minacciati, stroncati dalla stanchezza e dalla mancanza di risultati eravamo oramai spaventati e increduli verso un qualsiasi domani. “Chiudetelo in istituto e fatevi la vostra vita” ci consigliavano i benpensanti. Va da sé che noi si procedesse uniti e forti verso un futuro che appariva fosco ed incerto. Venne il giorno che un amico per caso assistette ad una crisi e mi consigliò il Dottor Comello di Torino, a suo dire famoso per le sue cure e specialmente per il lavoro basato sull’ipnosi e non sugli psicofarmaci. Ci prenotammo speranzosi per una visita. Ricordo era marzo, Ulisse aveva 18 anni da tre mesi ed era reduce da tre ricoveri traumatici. Arrivammo a Torino e accompagnammo Ulisse sostenendolo per farlo camminare. Il primo incontro con il Dr. Comello è custodito nei miei ricordi come le cose importanti di una vita. Ricordo una ad una le sue parole: “non dare un nome a queste patologie che asserisci di avere, devi smaterializzarle”, “non puoi prendere tutte queste medicine a 18 anni, io non prendo neanche l’aspirina“, “io in pochi mesi ti libero da queste catene”. Alleluia, finalmente Ulisse era trattato da essere umano e per di più gli si disegnava un futuro. Vi ricordate che vi raccontavo che entrammo in studio sorreggendo Ulisse da ambo le parti? Bene uscendo lo vedemmo procedere sicuro e per di più intento a canticchiare. Una timida primavera riscaldava Piazza Vittorio e i nostri animi. In quel periodo univamo due visite a Torino settimanali con il Dr. Comello ad una terza dalla luminare per la riduzione dei farmaci. Altra immagine scolpita nella mia anima è stata quando il dottor Comello ci invitò a bere un caffè insieme a lui. Come? Trattati da esseri umani? Impossibile ma vero! Che grandiosa e dimenticata contingenza. Grazie Walter te lo dico sempre poco. Breve, da lì a sei mesi Ulisse abbandonò tutti gli psicofarmaci e con essi tutti i suoi problemi. La luminare è sparita, ma per lei non serbo rancore, è solo profeta di una medicina vetusta e per noi sbagliata. Ora Ulisse è capitano della sua vita, dopo una eccellente maturità studia in una università lontano da casa, è felice e sereno. Rinnega il suo passato ma il Dottor Comello dice che è una cosa giusta, che io non capisco grato come sono a quest’uomo “neo demiurgo” della nostra felicità che troviamo in ogni piccola cosa di ogni piccolo giorno. A me resta il desiderio di dare un senso a questi cinque anni oscuri e terribili e lo trovo nel cercare di aiutare tutti coloro i quali si trovano, come è stato per noi, ad affrontare un nemico invisibile così crudele. Adesso smetto avrei tante cose da raccontare, ma sono commosso e questo non mi consente continuare a scrivere sul PC. Ah dimenticavo, Grazie Walter di cuore e per sempre.
Il papà di "Ulisse"