CE L'HO FATTA!
Riavvolgo il rullino e torno indietro di un anno. Salto la fase acuta della malattia, il ricovero, la fame d’aria, la terapia intensiva e tutti i brutti ricordi di quei giorni ... di quei mesi ... per partire dal giorno in cui mi hanno mandata a casa, a loro dire, guarita. Ma le ferite erano ancora fresche e te ne rendi conto quando hai bisogno di ossigeno per poterti lavare al mattino, per arrivare dalla stanza alla cucina o per spiegare qualcosa e dopo qualche parola doverti sedere perché non hai più fiato. Tutte cose che fino a ieri, prima del Covid, facevi meccanicamente e che di colpo ti sembrano enormi montagne da dover scalare. Ora sei a casa tua, tra i tuoi affetti e i tuoi odori conosciuti e devi iniziare a fare i conti con una NUOVA VITA, perché è un po’ questa la realtà. Mi è stata data una seconda chance, quando tutto sembrava andare per il verso peggiore; di colpo i miei polmoni hanno iniziato a funzionare di nuovo, senza l’aiuto delle macchine. Tutto ciò ha come conseguenza un grande impatto sia fisico che psicologico perché ora la testa deve elaborare quanto è successo e non è così semplice come può sembrare. Oggi, dopo un anno, posso dire di avercela fatta e di sentirmi serena. Ho avuto bisogno di aiuto perché non ce la possiamo fare da soli, dobbiamo farci aiutare e lasciar dire a persone qualificate quando è arrivato il momento di poterne fare a meno, perché purtroppo non siamo obiettivi nel riconoscere questo momento. Sono stati mesi impegnativi, ma ogni obiettivo raggiunto è stato per me una grande vittoria. Ho dovuto reimparare a camminare, a sollevare oggetti, a lavarmi da sola, a piegarmi senza cadere all’indietro e tanto altro ancora. Come mi ha scritto mio figlio in una lettera: “ho visto MIA MAMMA NASCERE”. Poi ho iniziato un percorso parallelo per comprendere il significato di quegli incubi che mi porto dentro dal momento che sono stata portata in reparto dalla terapia intensiva; quello è stato un punto fondamentale in questa svolta. Grazie all’aiuto del Dottor Comello sono riuscita a collocare ogni pedina al suo posto e a comprendere il vero significato di quella realtà alterata di cui portavo il ricordo. Appena arrivata a casa ero carichissima, con tanta voglia di riprendere in mano la mia vita; mi allenavo tutti i giorni con in sottofondo la musica del film di Rocky ... i miei figli sorridevano mentre mi spiavano. Non vedevo l’ora di tornare al lavoro perché significava tornare alla normalità. Poi, quando meno me lo sarei aspettata, davanti alla prima difficoltà fisica dovuta alla comparsa di tosse, sono andata in panico come non avrei potuto immaginare. La paura e il terrore della malattia si sono fatti strada nella mia testa facendomi crollare e qui mi sono resa conto che l’aiuto psicologico di cui parlavo prima era per me ancora necessario ... ora più di prima. Grazie anche all’ipnosi sono riuscita a raggiungere uno stato di benessere, serenità e consapevolezza. Dietro consiglio del Dottor Comello ho festeggiato il 6 novembre, il giorno del ricovero un anno dopo. Io non l’avrei mai fatto perché quella data rappresentava per me un brutto ricordo, invece è stato un modo per esorcizzarla e far sì che diventasse per me l’anniversario dell’inizio di una tragica esperienza dalla quale sono RINATA e grazie alla quale ora posso dire: CE L’HO FATTA. Grazie a tutte le persone che mi sono state vicine, con il pensiero e le preghiere. Un GRAZIE particolare ai miei figli, a mia mamma e mio papà, che sono convinta che da lassù abbia fatto la sua parte per farmi rimanere qui. Grazie alle mie amiche, sorelle di vita, vicini di casa, parenti, colleghi e conoscenti che hanno pregato per me e naturalmente un grazie particolare al Dottor Comello. Come dice mia mamma: “mi sei rinata un’altra volta”. E’ vero questa per me è una RINASCITA e mi considero fortunata di aver ricevuto questa grazia.
R. 56
HO VISTO NASCERE MIA MAMMA
Se un anno fa mi avessero chiesto di scrivere una lettera dei regali che volevo ricevere, probabilmente ne avrei scritto soltanto uno e se adesso stai leggendo queste parole vuol dire che sono stato accontentato, vuol dire che qualcosa o qualcuno voleva che passassimo ancora almeno un Natale insieme. Ho sentito tante volte dire che uno dei momenti più belli della vita è quando si vede nascere il proprio figlio, posso crederci, ma io sono stato più fortunato. Io ho visto nascere mia mamma. Ti ho vista “appena nata”, anche se tu non lo ricordi, ti ho vista dire le tue prime parole e fare i tuoi primi passi, tra una nausea e una chiamata in cui mi dicevi che non ce l’avresti potuta fare, che tu non eri come le tue compagne di stanza. Dicono che i dolori di una gravidanza siano indescrivibili, che solo chi li ha provati può capire, che a volte tolgano il respiro. Beh posso dire di sapere cosa significa, posso dire di aver provato cosa voglia dire non respirare per alcuni secondi, a volte minuti, restare immobili, inermi, con i nervi lungo il collo e la mandibola che si tirano, i muscoli che si contraggono e in mezzo al petto pare di avere un coltello infilato. L’ho provato tante volte e lo provavo ogni pomeriggio quando l’unica cosa che potevo fare era contare i secondi, i minuti e attendere che un dottore, uno qualsiasi, mi telefonasse per darmi tue notizie. Poi il telefono suonava ad un orario diverso e io mi pietrificavo, a volte non avevo nemmeno il coraggio di rispondere, alzavo la cornetta, digrignavo i denti, accennavo un “pronto” mentre il dottore di turno, che ormai riconoscevo, si presentava e smettevo di respirare sperando solo di non sentire un “mi dispiace”, un “purtroppo” o una qualsiasi parola simile che lasciasse intuire quello che tutti non volevamo sentire. Poi mi parlava, provava a spiegarmi la situazione e come stesse peggiorando e io con la freddezza e la professionalità che mi contraddistinguono facevo domande, quasi scusandomi per il disturbo, perché volevo capire, volevo quantomeno provare a farmi un’idea di quante chances ci fossero, ma loro erano impassibili, qualcuno un po’ più gentile. Poi un giorno uno mi ha risposto “se non ci fosse il ventilatore sua mamma sarebbe già morta”, me lo ricordo ero in piedi, non so come, accanto alla finestra della tua stanza. In quel momento l’unico ad esser morto ero io. Poi iniziava la solita routine. Scrivevo quello che mi avevano appena detto e lo inviavo a 5, 10, 15, 20, 25 persone ogni giorno, modificando anche un po’ il messaggio. Poi, uno alla volta, un giorno alcuni e il giorno dopo altri, mi chiamavano per sentirmi ripetere quello che avevo già scritto e io morivo per la seconda volta, ma non lo davo a vedere o sentire, come sempre, ma stavo male e mi trovavo a dover spiegare senza troppi tecnicismi la situazione. Mi trovavo a giustificare l’operato dei dottori da chi li criticava, a spiegare come funziona il corpo umano e quali erano gli scenari possibili. Dopo di che restavo lì nella tua stanza, un po’ giocavo, un po’ provavo a lavorare, ma per me la giornata era già finita; a volte restavo sdraiato a fissare il soffitto e pensare “io non proverò mai la gravidanza, ma posso dire che un mese così vale molto più di quei nove mesi”. Andavo a dormire e prima di addormentarmi pregavo, sempre, quando magari mi addormentavo senza averlo fatto mi svegliavo in piena notte e lo facevo, non ho mai saltato un giorno, sempre le stesse preghiere nello stesso preciso ordine. Ave Maria, Padre Nostro, Angelo di Dio e Gloria, poi due preghiere libere, sempre con la faccia rivolta verso il bagnetto. La prima a Gesù, la seconda ... a volte lo guardavo, lo supplicavo perché sapevo che era lì al tuo fianco, sapevo che non ti avrebbe mai lasciata sola, gli dicevo “nonno lo sai che qui c’è bisogno di lei ancora”, poi piangevo, piangevo dentro, per non farlo vedere. I giorni passavano, ma la situazione non cambiava, quando i polmoni sembravano fare un passo avanti subentrava un’infezione, poi un’altra ancora, per gli esami serviva sempre qualche giorno e nel mentre non potevano fare altro che somministrarti antibiotici generici, sperando che facessero effetto, prima di avere i risultati e scegliere la cura più adeguata. Poi arrivavano i weekend, me ne accorgevo solo perché i dottori che mi chiamavano sembravano saperne meno di me e poi perché non mi chiamavano mai prima delle cinque. Nel weekend facevano il cambio di personale e io dentro di me speravo che anche tu riposassi in quei giorni per ricominciare a lottare il lunedì. Poi qualcosa è cambiato, non riesco a descrivere quel momento perché è come se tutto fosse accaduto troppo in fretta, all’improvviso mi dissero che ti avevano diminuito l’anestetizzazione muscolare per tornare a far muovere il diaframma, il giorno dopo che stavano provando a ridurre il lavoro della macchina, quello dopo ancora che il fisioterapista veniva in stanza a muoverti le gambe. Lo giuro non ricordo, è successo veramente tutto troppo in fretta, ad un certo punto mi è sembrato come se fino al giorno prima mi stessero parlando di un altro paziente. Era la settimana del compleanno di M., boh chi lo sa? è come se a modo tuo volessi essere presente in qualche modo. Lo stesso giorno, o forse quello prima, anche tua cugina L., una che ormai ha ben poco di a posto, in una delle sue interminabili chiamate in cui continuava a ripetermi che ce l’avresti fatta “perché la R. è forte”, mi disse che in cortile avevano trovato un fiore di un colore diverso, forse una rosa se non ricordo male, una sola di un colore diverso da tutte le altre. “E’ un segno del destino” mi disse e io, che faccio attenzione a tutte le piccole cose, un po’ ci credevo o forse volevo crederci. Di lì a poco hai iniziato a fare progressi, io non smettevo di riportare a tutti quello che i dottori dicevano e tutti erano felici e ottimisti, io no, non ci potevo credere, non ci volevo ancora credere e non riuscivo nemmeno a gioire. I dottori mi avevano pure informato delle possibili complicazioni a livello neurologico e motorio, mi avevano detto che avresti potuto aver bisogno di assistenza costante nei casi più gravi. Non importava, tutto andava bene pur di rivederti. Era il 10 dicembre, al telefono i dottori mi avevano detto che eri riuscita a respirare quasi autonomamente per diverse ore e che se i progressi fossero continuati avrebbero provato a portarti fuori dalla Terapia Intensiva. Poi all’improvviso, erano le 19.06 del 10 dicembre, ho ricevuto un messaggio su Whatsapp da un numero sconosciuto, diceva “Ciao, siamo del Reparto di Pneumologia dov’è ricoverata tua madre, se vuoi facciamo una videochiamata”. Ero in sala, pensavo fosse uno scherzo, poi ho chiamato M. e ci siamo messi davanti al telefono. Neanche mezzo squillo e tu eri lì ... eri lì, sporca, trasandata, distrutta, magra, ma eri lì, lo sguardo un po’ perso nel vuoto, ma eri lì che provavi a fare qualche verso e accennavi un ciao con la mano, quello è stato il momento più bello della mia vita, io ho visto nascere mia mamma. Qualche giorno dopo, il 15 dicembre, mi hai anche chiamato, facevi fatica a parlare, tanta fatica, emettevi suoni che io provavo a comprendere e tu mi rispondevi sì o no, poi ti hanno tolto il tubo e da quel momento non hai più smesso di parlare, se ne saranno accorti anche in reparto, mi chiamavi 4-5 volte al giorno come minimo, mi raccontavi della fisioterapia, della saturazione, mi dicevi di cosa avevi voglia e io correvo a destra e a sinistra a prendere tutto, ma ero felice, ancora non ero sicuro, ero titubante, ma volevo crederci. Venivo la sera tardi, litigavo con le guardie e poi in un modo o nell’altro entravo sempre in macchina, salivo al primo piano e aspettavo dietro alle porte scorrevoli che qualcuno apparisse, poi un giorno le porte si sono aperte e c’eri tu, lì in piedi, che passeggiavi e volteggiavi come se nulla fosse successo. Sono rimasto senza parole, credo proprio di non aver detto nulla, sono tornato a casa piangendo dalla gioia ... non volevo crederci. Poi finalmente è arrivato l’11 gennaio, sono corso a prendere la sedia a rotelle, sono venuto a prenderti e siamo scappati via, dritti a casa. Appena arrivata in camera ci hai guardati, ti sei messa a piangere e ci ha stretti come forse hai fatto la prima volta che ci hai avuti tra le braccia. Io non so se mai riuscirò a superare quello che è successo, io non so se mai smetterò di stare male ripensandoci, se mai quel coltello smetterà di girare nel petto. Non so quanti anni della mia vita ho buttato via in un solo mese, ma ne è valsa la pena, sono riuscito a vedere nascere mia mamma e questo, non lo dimenticherò mai.
Il figlio di R.