Un vento tiepido e il profumo di tigli in fiore è il ricordo che permane in me mentre alle mie spalle si richiudeva la porta automatica dell’ospedale. Nel trambusto di quei 40 giorni appena trascorsi e mentre “ritornavo” alla comune vita, c’era un unico chiaro pensiero nella mia mente: avrei fatto di tutto perché non si ripetesse. La diagnosi mi appariva ancora un po' “fumosa”: paraganglioma duodenale. Anche la prescrizione: follow up di 10 anni, perché sebbene la mia forma tumorale fosse benigna, era molto rara. Non erano entrambi sufficienti. Dentro di me rimuginava ancora la sola certezza che mi aveva tormentata nei lunghi giorni di degenza, mentre si arginavano le conseguenze: dovevo andare alla radice del problema, dovevo capire cosa fare di diverso, quale credenza o dinamica smontare per scongiurare una recidiva. Non sapevo come fare, né quali strumenti adottare. E nessun medico consultato aveva una risposta chiara, una proposta “preventiva” efficace, solo tentativi e intorno a me, tra medicina allopatica e non, i tentativi erano infiniti. Poi, come succede a volte quando si chiede nella disperazione e confusione, una via si apre in modo inaspettato. A tre settimane circa dalle mie dimissioni mi proposero di andare ad una conferenza. Avevo già partecipato a quella dell’anno precedente e in quel momento riaffiorarono in me tutta la curiosità e l’interesse che aveva destato. L’argomento era l’utilizzo dell’ipnosi come strumento efficace nel processo di guarigione. Non era un argomento nuovo per me, ma quella conferenza, soprattutto le testimonianze raccontate hanno fatto scattare qualcosa…come un piccolo barlume di speranza per affrontare la mia paura di ricadere nel “baratro” da cui ero “miracolosamente” uscita. Così un mese dopo ero seduta davanti al Dott. Comello a raccontargli perché ero lì. Volevo guarire definitivamente, volevo modificare le dinamiche che avevano generato in me quell’eccesso di produzione cellulare. Prima di sedermi in quell’ufficio avevo ipotizzato cosa mi potesse chiedere, cosa avrei dovuto raccontare; mi immaginavo magari chissà sdraiata su una chaise longue come nelle più comuni scene dei film sull’argomento. Niente di tutto ciò, anzi. Seduta su una solida e anche comoda sedia, con al di là della scrivania il Dott. Comello, provai a riepilogare un po’ del mio passato. La frase che il Dottore mi disse in quel momento, mi rendo conto ora, è stata il primo punto di svolta. Fu più o meno così: “non ci occuperemo di ciò che è stato; partiremo da qui per creare qualcosa di nuovo. Ma per poterlo fare bisogna che sia disposta a cambiare. Lei è disposta a cambiare?” Disposta a cambiare? Ero lì per questo, mi dissi, certo che ero disposta. Col senno di poi furono l’incoscienza o la disperazione, non saprei, a parlare perché ora so che non avevo proprio colto la “portata” di quella domanda. Ha così avuto inizio un percorso che dura tutt’ora. Un percorso perché il cambiamento (profondo) ha bisogno di fiducia, di tempi, di modi, di ascolti. C’è un inizio e un’evoluzione, c’è un divenire. Questo è ciò che riesco a vedere adesso, perché quando sei dentro al “processo” non è sempre facile rendersi conto. Quando sei dentro al “processo” ci sono momenti in cui vorresti arrenderti, vorresti mollare tutto, perché quasi ti sembra non utile. Poi resisti e allora può accadere come a me che ad un certo punto non ricordi più come eri, non senti più chi eri, quando hai iniziato il percorso. Questo, mi disse il Dottore, è l’evidenza che si è cambiati. Non ricordar più come si era, avviene quando si è lasciato ciò che si era. Oggi so che l’obiettivo che mi ero posta allora è stato raggiunto. E ciò che ancora mi meraviglia, ripensando al percorso fatto, è che il cambiamento è avvenuto quasi “impercettibilmente” o meglio in modo inconscio, ma irreversibile. E’ difficile trovare le giuste parole che rendano chiaro quanto si prova. Ad un certo punto non dato, mi sono accorta di agire, ma soprattutto di pensare in modo differente, avevo reazioni diverse. Ad ogni situazione che si presenta ora scatta in me un meccanismo che mi spinge alla ricerca della soluzione e alla consapevolezza di avere dentro una cassetta degli attrezzi, che all’uopo può essere aperta per prendere lo strumento più adatto ad affrontare il momento. Questo non immunizza dalla paura, dalla tristezza, dalla rabbia o dal dolore, ma sai, hai l’innata certezza, che potrai affrontarli. Ora guardo in faccia una delle cause del mio paraganglioma, come un dato oggettivo del mio percorso, senza che le ferite si riaprano perché ormai rimarginate. Un trauma avvenuto sette anni prima del ricovero. L’evento più doloroso della mia vita. Ma è appunto passato. Ora c’è una vita nuova tutta da vivere a piene mani, da sperimentare, da celebrare, ma con grande riguardo alle parole che l’accompagnano, che la descrivono, perché mai posso dimenticare che “la mente è terra e le parole sono semi”.
M. 50